Siamo arrivati alla fine dell’intervista-fiume che abbiamo fatto a Carlo Coluccio. Un’intervista così lunga che abbiamo dovuto spezzettarla in quattro parti. Anche per motivi di chiarezza. Le prime tre parti sono apparse sugli ultimi numeri di Phoresta (40-41-42). I temi trattati sono stati: la mobilità sostenibile, il disinquinamento della pianura padana, i tipi di fossil fuel e il loro impatto sull’ambiente e le proposte per la decarbonizzazione. Finiamo con due temi controversi. Il primo che vede pareri diversi tra gli stessi specialisti: per uscire dall’economia del fossil fuel bisogna usare incentivi oppure adottare la carbon tax? Il secondo: chi deve fare innovazione? Sentiamo il parere di Coluccio.
D- C’è un dibattito internazionale di cui spesso Nature nei suoi comment dà conto. In sostanza molti scienziati, economisti e chimici sostengono che non bisogna usare incentivi (economici, fiscali) per uscire dai fossil fuel ma al contrario bisogna dare un prezzo alle emissioni, insomma dare un “valore” monetario alla CO2 emessa in atmosfera. Le famose carbon tax.
C- Credo che la soluzione sia adottare entrambi i sistemi, nel senso che occorre incentivare ad acquistare auto elettriche nel breve periodo per creare la cultura del veicolo elettrico e disincentivare ad acquistare auto a diesel o benzina nel lungo periodo. Alla stessa maniera devono essere incentivate le strutture a supporto dei veicoli elettrici (sistemi di ricarica batterie a casa e sul territorio, stazioni di rifornimento di idrogeno per le fuel cell) nuove e riconvertite.
D- Ultima domanda. Tu sei stato responsabile di Reggio Emilia Innovazione: chi deve fare innovazione? Le aziende private, il settore pubblico o le università? Tu hai esperienza nell’innovazione tecnologica per l’ambiente. Chi la deve pagare e chi la deve sostenere perché ci porti al cambiamento di cui hai parlato in tutta questa intervista?
C- E’ più semplice e più complesso di quanto sembri. L’ innovazione in teoria la devono perseguire tutti, ma in pratica non è facile stabilire come i vari attori debbano interagire per utilizzare in maniera efficiente le risorse economiche. Un possibile circolo virtuoso si può avere pensando di:
a-effettuare ricerche finanziate dalla società/stato/territorio
b-le ricerche portano a sviluppare competenze da mettere al servizio dell’industria
c-con tali competenze l’industria sviluppa prodotti che immette sul mercato
d- i prodotti generano un ritorno economico a società/stato/territorio per mezzo dell’imposizione fiscale che può essere reinvestito in altre ricerche
In tal modo il sistema si autoalimenta e non necessita di continue iniezioni di fondi da reperire non si sa dove. Perché ciò avvenga l’Università e i diversi Centri di Ricerca dovrebbero non solo fare ricerca di base ma fare una ricerca che possa essere fruita da parte delle industrie per la creazione di prodotti da immettere sul mercato. E’ un circolo che in Italia non siamo ancora riusciti a creare per ragioni diverse, non ultimo il fatto che le carriere dei professori sono concepite in base alla produzione di articoli e non allo sviluppo di prodotti per il mercato.
Non è infatti richiesta, come succede in altri paesi, un’esperienza industriale per diventare ricercatore o lavorare in ambito universitario. In Germania – la cito perché ho avuto occasione di verificare personalmente – ci sono due rami ben distinti: le università che fanno ricerca di base e quelle che indirizzano le loro ricerche per applicazioni industriali dove invece tali esperienze sono richieste. Sono due cose diverse, l’università che fa ricerca di base deve essere finanziata dallo Stato, quella industriale può essere finanziata dalle aziende che ne utilizzano le competenze per sviluppare e mettere a punto i loro prodotti.
Questo secondo esempio è quello che io ho cercato di mettere in pratica in Reggio Emilia Innovazione (NdR: centro innovazione e laboratorio di ricerca industriale della Rete Alta Tecnologia della Regione Emilia Romagna) realizzando insieme con gli spin off universitari dei laboratori di ricerca per sviluppare competenze che vengono messe al servizio delle industrie per sviluppare prodotti. Si ricavano così in buona parte le risorse per finanziare nuovi laboratori e nuove ricerche e sostenere anche i ricercatori che portano avanti il lavoro creando il circolo virtuoso.
D- Come mai non si fa?
C- Ci sono interessi divergenti e occorre che le due realtà, università e industria, si aprano per cercare di capire i modi di pensare e le necessità dell’altra. Ho cercato di trasmettere alle Università il modo di ragionare dell’impresa e all’impresa le dinamiche accademiche, ma ognuna ragiona alla sua maniera e non è facile aprirle alla cosiddetta “open innovation”, per cui non necessariamente le buone idee si trovano solo in casa e bisogna aprirsi al colloquio con realtà esterne.
Da manager quale sono ho trasformato REI (Reggio Emilia Innovazione) da centro prevalentemente universitario a qualcosa che appariva alle imprese come un’impresa (con reception, uffici e laboratori ben distinguibili) e alle università come un partner per sviluppare i propri laboratori in aree neutre, attrezzate e finanziate inizialmente allo scopo con fondi del territorio, con il patto però di mettere le competenze al servizio del territorio stesso, per far sì che REI fosse vista come la casa di tutti.
Nell’arco di 6 anni ho fatto crescere 10 laboratori in collaborazione con i ricercatori, aumentando le collaborazioni con le imprese e portando l’autofinanziamento a oltre il 90%. Il frutto di lavoro dal basso, con i singoli interessati e con il supporto degli enti locali, inserito nella rete regionale della Alta Tecnologia.
Qualcuno lo vedeva come un miracolo, ma esistono in Italia diverse realtà e centri per l’innovazione che operano in maniera analoga. Credo che occorrerebbe mettere a sistema le varie esperienze a livello nazionale e trovare nuove forme di collaborazione e finanziamento.
Non è cosa facile, molte imprese sono chiuse verso l’esterno e ai professori non interessa sviluppare prodotti, caratteristica questa universale, come da me appurato personalmente al Massachusetts Institute of Technology (M.I.T.), famoso per essere stato l’origine dei recenti prodotti tecnologici più innovativi.
Come per i veicoli anche qui occorrerebbe incentivare le iniziative virtuose e disincentivare quelle volte a raccogliere fondi per poi produrre carta e parole. La volontà politica a questi effetti è determinante per escludere dai processi decisionali tutti i personaggi che mirano a perpetuare lo status in cui si può ricevere fondi senza rendere conto e senza produrre risultati concreti.
Chiudiamo qui l’intervista di Coluccio che si è speso generosamente per farci capire problematiche davvero complesse. Lo ringraziamo e, sicuramente, lo interpelleremo su questi temi anche in futuro.